Siracusa- “L’aver causato la morte di un ragazzo vale per la giustizia italiana quanto un furto di arance?”
Se lo è chiesto e continua a chiederselo, senza darsi pace, Rossana La Monica, sorella maggiore di Stefano Biondo, un bambino nel corpo di un ragazzone, per i disturbi psichici da cui era affetto, deceduto a Siracusa all’interno di una struttura specializzata, dove era stato ricoverato da nemmeno 24 ore. Un decesso prematuro, assurdo, per il quale sarebbe stata richiesta una pena detentiva di soli 9 mesi a carico del presunto responsabile, ieri nel corso della discussione finale del processo penale, che ha visto sedere sul banco degli imputati l’infermiere professionale di turno quel maledetto 25 gennaio del 2011, quando Stefano venne a mancare per “asfissia meccanica indotta da compressione”, come recita il referto dell’esame autoptico, cui venne sottoposto per chiarire la natura di quella tragedia, che lo strappò all’affetto dei cari. Una mamma, due sorelle, un fratello, cognati e nipoti che tutto si aspettavano ma non certo di vedere rientrare in casa il loro “tesoro” cadavere. Una tragedia sicuramente evitabile, se solo alle ipotizzate “opposizioni” di Stefano, da poco inserito in un ambiente a lui non familiare, chi deputato ad assisterlo, formato e pagato per farlo, avesse reagito in maniera umana, oltre che professionale, prima e anche dopo aver messo in pratica presunte manovre da bloccaggio, fuori luogo, certamente inammissibili nei confronti di un ragazzo che manifestava la sua sofferenza e andava tranquillizzato, come sarebbe emerso dalla ricostruzione di quei terribili istanti. Ieri l’ennesima udienza al Palazzo di Giustizia di Siracusa, dove i familiari di Stefano Biondo, che nel frattempo hanno dato vita in memoria del fratello ad un’associazione di solidarietà sociale, “Astrea”, dedicata ai più deboli, sono stati accompagnati da una “scorta” di amici, associazioni, gente comune: tutti ansiosi di ascoltare la sentenza, che però sarà pronunciata dopo l’udienza conclusiva fissata per il prossimo 21 febbraio. Dovranno, dunque, ancora attendere e pazientare i familiari di Stefano, per ottenere quella giustizia che rivendicano da ben 7 anni. 7 anni durante i quali la rabbia, il dolore sono stati trasformati in amore e speranza regalate al prossimo – come ha ribadito Rossana, la sorella maggiore di Stefano, quella che non ha demorso nemmeno un secondo affinché vengano riconosciute le responsabilità di chi le ha portato via per “colpa” il suo tenero fratellone. Non ci sta Rossana a far cadere nel dimenticatoio la vicenda del fratello, che non sarà mai archiviata e fatta decadere nel cuore di chi lo ha amato quel ragazzo “strano”, “difficile”, a volte “impenetrabile”, ma da difendere e coccolare. Non lo dimenticherà mai nemmeno la città, che si è associata al dolore di questa famiglia. Il ricordo si manterrà vivo pure dopo la pronuncia del verdetto dei magistrati. Non è sete di sterile vendetta la sua, bensì di giustizia pura, per contribuire a far sì che non ci siano più ragazzi ammalati trattati e considerati come un “peso”. Quel sacrificio ha prodotto ceneri, che hanno dato l’input alla formazione di un’organizzazione virtuosa di mutuo soccorso, fatta di anime sensibili e mani caritatevoli. Dalla disperazione è nata una “squadra del cuore”, che usa come divisa d’ordinanza una maglia rossa con impressa la “stella” della giustizia…da fare brillare…quando tutto sembra buio… e da non lasciare spegnere, alimentandola con la verità.
Mascia Quadarella